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Immagine del redattoreelisabettagazzola

Buoni propositi per il 2024, dopo il pandoro-gate




Il 2023 lo ricorderemo come l’anno del pandoro-gate e della campagna Balocco-Ferragni.


Sulla vicenda, diversi colleghi hanno scritto post e articoli che condivido e che mi hanno fatto riflettere. Dal messaggio sbagliato, al tema della disintermediazione e di quello che accade quando fai beneficenza e non lavori per costruire una partnership alla pari coinvolgendo l’organizzazione nonprofit. La mancanza di professionisti competenti, capaci di guidare l’azienda verso la corretta comunicazione verso i consumatori. Il voler rimediare facendo beneficenza pensando di essere un filantropo.


Condivido con voi le mie riflessioni: buoni propositi per un nuovo inizio.

Nel 2024 vorrei che le aziende imparassero a non confondere il business con la filantropia, vorrei che si affidassero a consulenti qualificati per costruire una strategia di corporate philanthropy. Vorrei che si smettesse di dire “che la beneficenza la si fa ma non la si dice”. Dobbiamo parlarne di filantropia, perché parlarne aiuta a farla crescere.

Vorrei che gli ospedali iniziassero a fare fundraising, magari formando al proprio interno professionisti qualificati e dedicati a svolgere questa funzione e vi prego: non chiamateli responsabili marketing, comunicazione, rapporti con la comunità o in tanti modi creativi. Sono fundraiser, si chiamano così.


1# Non confondere il business con la filantropia.

Nel 1983, quando American Express presentò per la prima volta l’idea che conosciamo come marketing legato alla causa o CRM, mediante il contributo di una piccola somma per ogni transazione effettuata con la carta per il restauro della Statua della Libertà, suscitò considerevole scetticismo e preoccupazione. Si temeva che simili iniziative avrebbero potuto trasformare la filantropia in un mero strumento di marketing (Gottlieb, 1986).


Il caso Balocco costituisce una testimonianza eloquente dell’utilizzo sbagliato dello strumento (il Cause Related Marketing) e dell'effetto della sfumatura tra filantropia e attività commerciale, evidenziando come la filantropia stessa possa assumere le sembianze di un "tipo" di attività commerciale legata al business, perdendo così il suo significato più vero e autentico.

Michael Moody, in un articolo che trovate qui, parla di questa tendenza. Moody spiega che “fare del bene”, in modi che vanno oltre le donazioni tradizionali - compreso il CRM - ha contribuito alla diminuzione documentata delle donazioni e del volontariato e potrebbe continuare a farlo.
È dimostrato che i millennial e la generazione Z, che cercano di creare cambiamento o rispondere a crisi come quelle che affrontiamo oggi, spesso si rivolgono a nuove scelte di consumo più che a nuove scelte filantropiche (Jones, 2020). 

Se abituiamo le nuove generazioni a vedere il percorso migliore per generare il cambiamento sociale solo attraverso il mercato, attraverso ciò che acquistano, le abituiamo a considerare la filantropia semplicemente una funzione del business.



2# Non confondere il fundraiser con il philanthropy advisor

Concordo con i colleghi che prima di me hanno ben spiegato che la competenza di un fundraiser, avrebbe probabilmente evitato di realizzare un’operazione commerciale presentandola come causa sociale. Non posso fare a meno di pensare però, che se i Ferragnez si fossero affidati ad un philanthropy Advisor, un consulente capace di costruire una strategia filantropica, avrebbero imparato a gestire meglio le proprie donazioni. 

È fondamentale distinguere queste due figure, perché entrambe sono cruciali per il mondo della filantropia. Mentre i fundraiser sono essenziali per garantire la sostenibilità nel tempo delle organizzazioni non profit, i philanthropy advisor giocano un ruolo fondamentale supportando i donatori, individui o famiglie, per definire le loro visioni filantropiche personali e raggiungere obiettivi significativi di impatto sociale.

Qui puoi scaricare l'abstract della ricerca che ho realizzato sulla professione del fundraiser e del Philanthropy Advisor.


3# La beneficenza si fa e non si dice.

In questi giorni si è parlato tanto del fatto che la beneficenza non andrebbe dichiarata né pubblicizzata, altrimenti si potrebbe pensare che si è fatta per trarne un vantaggio di immagine. Tutto corretto, se riconduciamo questa affermazione al caso Ferragni-Ballocco, dove l’errore è stato nell’aver pensato di rimediare ad una truffa con una donazione 1 milione di euro e nell’aver utilizzato la filantropia come strumento per ripulire l’immagine.


In generale, è bene ricordare che se le donazioni filantropiche sono discusse onestamente e in modo visibile nella sfera pubblica e se le persone sono solite parlare delle proprie donazioni in modo trasparente nelle proprie comunità, la filantropia cresce. Vi invito ad approfondire a questo proposito gli “8 fattori facilitanti la filantropia” di Handy and Wiepking. Parlare di filantropia, è il primo fattore per contribuire a far crescere la filantropia all’interno di un paese.

Von Schnurbein & Bethmann, (2015) ritengono che promuovere il così detto “Philanthropy talk” possa promuove la cultura filantropica molto di più e in modo più sostenibile che l’inserimento di inventivi fiscali. Parlare apertamente delle donazioni e celebrare i filantropi stimola la cultura filantropica e con essa lo sviluppo di una solida cultura del dono (McDonald & Scaife, 2011).

Inoltre, la presenza di grandi donatori in un paese va a motivare altre persone con grande capacità economica a seguire l’esempio. Il Giving Pledge è un esempio.


4# Ospedali e fundraising

Non ci sono concorsi pubblici per i fundraiser nella sanità pubblica e più in generale nella Pubblica Amministrazione. Il fundraiser non è una figura contemplata all’interno dell’organigramma di una PA. A fine 2020, immediatamente dopo l’emergenza COVID, insieme a Paolo Celli e Francesca Fochi, abbiamo lavorato a questo documento “Raccolta fondi: cosa stiamo imparando dall’epidemia coronavirus (lezioni per gli ospedali, i fundraiser e le altre nonprofit)” che ho riletto in questi giorni e che trovo ancora molto attuale.


Lo potete scaricare qui.


L’emergenza COVID e l’ondata di generosità che ha travolto gli ospedali, non ha portato ad una svolta. Non ha spinto gli ospedali a strutturarsi per costruire fundraising Unit al proprio interno, non ha insegnato a mantenere viva l’attenzione e la generosità dei donatori acquisiti nel periodo COVID con un’attività di donor care. La vera sfida nel fundraising per gli ospedali è di agire non soltanto con il fine di raccogliere fondi, ma di contribuire a radicare una diversa cultura del dono. Detto altrimenti: adottare una cultura del fund raising avanzata, che faccia leva sulla soddisfazione dei bisogni profondi del donatore, aiutandolo ad attivarsi per la comunità in cui vive.

Mi piacerebbe aprire un dialogo ed un confronto per capire insieme a coloro che all’interno delle strutture ospedaliere pubbliche, sono stati in prima linea con responsabilità gestionali, di marketing, comunicazione o fund raising durante e dopo l’emergenza Covid.

Sarebbe utile riuscire a raccogliere e mettere a sistema esperienze, commenti e idee di operatori del settore provenienti da aree geografiche diverse, individuando un approccio efficace al tema della sostenibilità economica degli ospedali, che possa diventare un metodo di lavoro condiviso e utile per tutti gli operatori del settore.


Diversi studiosi sono ormai giunti a teorizzare la necessità dell’esistenza della filantropia per la sopravvivenza stessa delle società democratiche (Payton e Moody, 2008). Noi fundraiser continuiamo a dirlo, che la filantropia è un settore a cui guardare con interesse perché, pur non essendo in grado di risolvere i problemi del welfare state, può contribuire ad alleviarli.


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